I fatti. Poco più di un mese fa due trasmissioni televisive diverse – Porta a Porta del 26 maggio e Petrolio del 30 maggio – hanno parlato di cosmesi e di trattamento in particolare. Più superficiale la prima trasmissione, un po’ più bilanciata la seconda – nonostante abbia affermato la presenza di “veleni” in smalti per unghie e tinte per capelli – entrambe hanno confrontato l’Inci ovvero la composizione di alcune creme (le materie prime presenti nella composizione) per concludere che il loro prezzo di vendita era del tutto spropositato rispetto al costo di produzione. Almeno questo accadeva certamente in profumeria, i cui banchi sono stati oggetto di visita e messi a confronto direttamente e indirettamente con quelli della farmacia, anche da parte dello stesso Ministro della Salute Beatrice Lorenzin che a domanda diretta sul tipo di cosmetici di cui fa abitualmente uso ha affermato di utilizzare solamente una preparazione galenica realizzata dal suo farmacista di fiducia. Anche il mass market e il brand leader di mercato in questo canale sono stati oggetto di critica, in questo caso per il claim sul packaging considerato “ingannevole”. Le conseguenze. La messa in onda delle due trasmissioni ha dato il via a un acceso dibattito tra associazioni di categoria e industria cosmetica, tra profumieri e brand. Al di là di qualsiasi tipo di polemica ci sembra questa l’occasione giusta per porci una domanda: perché la profumeria – pur avendo alle spalle una filiera in cui l’Italia è protagonista a livello mondiale – non è in grado di valorizzarsi? Perché non è in grado di fare lobby come altre categorie e canali sono evidentemente in grado di fare? Prendendo spunto da quello che è emerso a livello mediatico vogliamo enfatizzare una serie di fattori che potrebbero diventare il manifesto della profumeria e, proprio in risposta agli attacchi mediatici, diventare i punti di forza del canale. Prima di tutto facciamo chiarezza sulla sicurezza dei prodotti. Non solo i cosmetici non sono dannosi, ma non contengono veleni perché – come ha correttamente affermato il direttore del Centro Nazionale Sostanze Chimiche a Porta a Porta, la dottoressa Rosa Draisci – il fatto che siano in commercio significa che rispondono ai requisiti richiesti dalla CE ovvero che le materie prime utilizzate sono conformi ai requisiti di sicurezza imposti dalla stessa Comunità Europea. È vero, l’Inci è l’unica indicazione dalla cui lettura possiamo desumere informazioni relative agli ingredienti di un trattamento piuttosto che di un ombretto, ma due Inci apparentemente molto simili possono dare vita a prodotti dal punti di vista qualitativo differente, anche fortemente. L’Inci non contiene infatti indicazioni sulla qualità delle materie prime utilizzate che possono essere basiche oppure premium, facendo di conseguenza variare anche molto il prezzo finale e – ciò che più conta – le proprietà del cosmetico. Lo ha dimostrato proprio Petrolio con il contributo del prof. Stefano Manfredini, professore Ordinario di Chimica Farmaceutica e Tossicologica presso la Facoltà di Farmacia dell’Università di Ferrara, che ha sperimentato con strumentazione ad hoc come l’uso di due diversi tipi di acido ialuronico in due sieri con il medesimo Inci abbia effetti molto differenti in termini di idratazione della pelle. Parliamo quindi di produzione. La filiera produttiva dei cosmetici – che in Italia è particolarmente fiorente soprattutto nel make up – è composta da un numero relativamente contenuto di player. Questo significa che in molti casi sono i medesimi terzisti e la stesse macchine a produrre maquillage di brand entry level e premium. Come è possibile? Le formulazioni cambiano da un marchio all’altro e spesso un brand beneficia in esclusiva di principi attivi e lavorazioni che altri non hanno. Di conseguenza cambia il prezzo di produzione e quello finale di vendita.
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