Secondo Peter Gladel, amministratore delegato e ceo di Beauty and Luxury, bisognerebbe trasformare il punto vendita in un hub di servizi con eventi, appuntamenti, vernissage. I più bravi già lo fanno, ma sono solo una parte del mercato.
Sono al 100% d’accordo con Carlo Alberto Carnevale Maffè. Non è possibile riposarsi sugli allori del passato perché oggi il consumatore è cambiato. Se negli anni scorsi la profumeria era in grado di offrire un’esperienza perché non appena il cliente entrava in negozio l’addetto lo salutava, gli chiedeva come stava il figlio piuttosto che il nipote o il cane, differenziandosi in ciò dalle catene e dai grandi magazzini. Oggi non è più così. Le realtà più strutturate e i department store hanno fatto un passo in avanti e creato un’esperienza di tipo diverso, proiettando il consumatore in un altro universo con un’offerta speciale ed esclusiva. Il retail moderno ha innovato il modello della profumeria e la profumeria classica non è stata in grado di adeguarsi. Naturalmente non per tutti è così, perché ci sono alcuni retailer che ancora offrono un’esperienza e lo fanno bene, si prendono cura del cliente e gli offrono un’esperienza, ma non tutti. Penso che il passaggio culturale da fare sia proprio trasformare il punto vendita in un hub di servizi con eventi, appuntamenti, vernissage. I più bravi già lo fanno, ma sono solo una parte del mercato.
La crisi attuale deriva dalla maggiore concorrenza cui è sottoposto il canale selettivo. Anni fa la profumeria era “attaccata” solo dalla farmacia, oggi sono molteplici i competitor: la farmacia, i monomarca e i drugstore… Ma ci dimentichiamo sempre che è il consumatore che decide dove comprare. In farmacia il consumatore probabilmente pensa di trovare un consiglio più tecnico, nei monomarca trova servizio a un prezzo aggressivo e un ambiente quasi di lusso.
Sono tante le ragioni che hanno messo in crisi la profumeria e individuare un unico modello cui fare riferimento, anche in altri mercati, non è facile perché il beauty è fatto di universi eterogenei. Se nel profumo si vende un sogno, nello skincare è necessario fare leva su aspetti quali scientificità e performance. Per il make up è ancora diverso perché è fondamentale il risultato del prodotto sulla propria pelle e il consiglio che ti viene offerto. Penso che un modello univoco non ci sia, cambiano i trend, cambiano le interpretazioni per cui è necessario restare aperti al cambiamento. Se guardiamo all’abbigliamento e alle realtà di provincia, il retail superspecializzato che con grande ricercatezza mette insieme prodotti diversi è ancora oggi una realtà e un pezzo della cultura italiana. Lo stesso nella profumeria. Non c’è una formula standard, l’importante è riuscire a differenziarsi con una visione chiara e autentica.
In altri Paesi del mondo l’industria e la distribuzione si scambiano informazioni, risorse per il profiling della clientela. È una consuetudine. Perché questo non si verifica ancora in Italia? Non tutto il retail è disposto alla condivisione ma è geloso dei propri dati, il che andrebbe bene se queste informazioni venissero utilizzate in qualche modo. Invece ci sono realtà che raccolgono moltissime informazioni sui consumatori, ma invece di farne qualcosa di più analitico e strutturato se lo tengono lì. È un peccato perché l’industria può dare tanto al retail sia in termini di risorse sia di mezzi, cosa che fa già con alcune catene con le quali realizza iniziative di Crm. È necessario stare al passo con il consumatore che si evolve e traslare almeno una parte del servizio sulla tecnologia, affinché ciò che gli addetti prima faceva personalmente oggi sia realizzato da un’App o da un messaggio che appare sul telefono del cliente nel momento in cui varca la soglia del punto vendita. È necessario capire che cosa vuole il consumatore o cosa vorrebbe il consumatore che vuoi conquistare.
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